Nov
29
2015
La corona di Avvento, nella sua circolarità, ci rimanda alla dimensione del tempo, ciclico e al contempo nuovo perché portatore di Luce. La ridondanza non è colta come monotonia ma quale occasione per la profondità e la sapienza della storia. È nel tempo che si struttura la storia di salvezza, nel tempo che si approfondisce la relazione con Dio.
In questa prima domenica di Avvento il Vangelo (Lc 21, 25-28.34-36) ci presenta uno scenario apocalittico, cioè una narrazione sulla fine dei tempi. In realtà è il compimento di tutto ma viene presentato con uno sconvolgimento, un perdere ogni cosa per ricreare e trovare un criterio nuovo per stare nella quotidianità.
Sembrano risuonare i versi di Isaia (65, 17ss), Dio compie una nuova creazione e, per operare, riplasma la sua prima creazione. La distruzione, pertanto, non è finalizzata a procurare disperazione ma a risvegliare la speranza!
L’attesa cristiana, questo è il significato di Avvento, non è un proiettarsi verso la meta svalutando il presente. Piuttosto è uno stare nel presente illuminati dalla Luce delle meta.
È, altrimenti, come se entrassimo in una stanza buia, metafora della vita, con una luce fioca. Questa non ci permetterebbe di vedere oltre il segmento e quell’ambiente non apparirebbe nella sua interezza. Sarebbe come se di un meraviglioso quadro vedessimo solo un lembo, la trama di un colore, ma non la bellezza nella sua totalità.
Una luce abbagliante, al contempo, non saremmo capaci di reggerla, troppo forte ci attirerebbe a sé impedendoci di vedere oltre e tutto finirebbe assorbito dal suo fulgore accecante.
È necessaria la Luce, quella che permette la prospettiva adeguata ad accostarsi alle cose della vita e, una volta accolte, restituirle riconosciute.
“Vi saranno segni nel sole…” come a dire che il firmamento viene nuovamente ridisegnato. Si crea così una condizione primigenia, una nuova creazione che passa per la distruzione ed il caos iniziale. Ricordiamo come a principio Dio aveva posto la creatura a custodia del cielo, del mare e della terra, ma la pretesa umana aveva spezzato la relazione con Dio facendo perdere quell’armonia di fondo.
Sarebbe da chiedersi quale dimora stiamo attendendo nella nostra vita, quale è il desiderio che alimenta i nostri giorni. Se ridefiniamo quale è la meta che aspettiamo allora sarà facile lasciare che tutto venga trasformato e quindi “perduto”, perché altro è ciò per cui viviamo. Diversamente potremmo scoprirci simili a quegli uomini che cercano soddisfazioni quotidiane attraverso il “tutto e subito”, il guadagno facile anche se a prezzo del compromesso, il tipico stile dell’ “usa e getta” proprio del nostro tempo.
L’essere umano inizia ad avere percezione dello scorrere del tempo attraverso la relazione con la figura di accudimento. Il bimbo percepisce la mancanza dell’altro e la codifica come attesa nello scorrere del tempo, lo sanno bene i genitori quando gradualmente si distaccano dai figli accompagnandoli alla scuola d’infanzia. È in quella fase che i figli si riescono a distaccare perché tengono dentro di sé la presenza del genitore, la relazione permane anche a distanza, esperienza impensabile per un neonato se non per brevi momenti. Probabilmente molte patologie dei nostri giorni riflettono distacchi precoci, esperienze percepite come “abbandono” in tenera età.
Il cristiano, illuminato da questa pagina, torna ad alimentare il desiderio dell’Altro, dell’atteso, e il cammino terreno è tempo sperimentato quale spazio della relazione, tempo del desiderio. È peculiare tale rapporto proprio perché, nella Pasqua, Dio ha pienamente donato la sua vita, se stesso, ad ogni uomo. Anche nel momento della Crocifissione cielo e terra si oscurarono: fu l’inizio della nuova creazione, la restituzione di un valore comunionale al tempo, in cui è possibile mantenere viva la relazione con il Creatore.
È pertanto che il Vangelo invita a risollevare il capo. Rimane chino su se stesso l’uomo peccatore cioè che non si pensa in relazione con Dio, l’uomo abitato da pensieri e sentimenti menzogneri. Adamo si nasconde dopo il peccato delle origini, non si sente all’altezza di elevarsi a Dio. Il chinarsi è anche un non ascoltare, chi sta eretto ascolta l’interlocutore, mentre l’uomo che si china ha assunto la postura vittimistica propria di chi si piange addosso.
Gesù invita a non appesantirsi, in particolare con “dissipazioni, ubriachezze ed affanni”. Si dissipa chi combatte tante battaglie perdendo di vista l’unica battaglia importante. L’ubriacatura è propria di chi cerca di anestetizzarsi vivendo in uno stato euforico e di continua ricerca del sensazionale. Si affanna chi vive di preoccupazione, come se l’esistenza dipendesse dal controllo che ha sulle cose.
Tutti atteggiamenti che non permettono la fiducia in Dio. La fede dice, piuttosto, del legame con chi regge la propria vita, mentre l’appoggiarsi agli oggetti di turno crea dipendenza e vuoto interiore.
Taluni percepiscono la vita quale monotonia e non trovano senso nella quotidianità, la ricerca di questi espedienti diventa un modo per avere novità. Eppure è proprio quella “monotonia” a permettere di andare in profondità e a fare di tutto un’occasione di scoperta sempre nuova.
Conclude Gesù rimandando alla vigilanza: “affinché quel giorno non ti piombi addosso all’improvviso”. È l’esperienza di chi si sente in cammino e mai arrivato, di chi rimane in ascolto perché non ha tutte le risposte già pronte, di chi si fida perché sa che il rimanere nel proprio quotidiano e cioè la storia che Dio gli consegna da vivere, è la vera occasione della sua vita.