lug
6
2014

Riconoscersi piccoli per osare in grande!

      In questa domenica la Parola che ci viene consegnata provoca i criteri umani ricordandoci la forza che viene dall’umiltà.
          Così  Zaccaria proferisce: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra…”.

         Ma come? Si parla di un re e questi lo si presenta come un condottiero che cavalca un asino? È il cavallo a portare il re in guerra fino ad uscirne vittorioso proprio per le sue prestazioni e la sua velocità. È un po’ come oggi che si valuta la qualità di una persona a partire dalla velocità con cui realizza molte cose in poco tempo! In fondo anche le battaglie e le vittorie in guerra allora, così come oggi, erano una questione economica, vincere significava far soldi.
      Qua è di qualcosa di diverso che si sta affermando, anzi di totalmente opposto. In modo analogo nel Vangelo (Mt 11, 25-30) Gesù loda il Padre perché si è rivelato ai piccoli. Essi sono coloro che manifestano le necessità al Padre, il bisogno del suo sguardo e della sua presenza.
     Chi si rivolge al Padre da “piccolo”, è come chi attende di ricevere e di imparare da qualcuno più grande. Si, il cristiano è colui che ammette di dovere imparare ancora. Riconosce di non essere arrivato ma di trovarsi in cammino, capace di stupore innanzi al volto di Dio.
      La preghiera al Padre è a principio una benedizione, Lui loda il Padre è contento per il suo agire e il suo fare, quello di Gesù, esprime l’impronta del Padre. Il nostro tempo sembra smarrire la relazione con il padre: Dio dona la vita e dà direzione, mi lascia andare e mi accoglie al ritorno. Il perdono è l’espressione massima della paternità di Dio che non è giudice severo che vuole la morte del peccatore. Desiderio di Dio è che l’umanità accolga il suo dono, la figliolanza è il dono più grande: essere resi come Dio. In realtà questo è anche il desiderio della creatura, solo che quando si vuole raggiungere questa meta da soli ecco che si costruisce l’esperienza del peccato.
       Dio rivela, è parola che si fa conoscere e si rivela quale Padre, “Signore del cielo e della terra”. Proprio perché onnipotenza e misericordia si incontrano in Lui, quello che esiste e non solo ciò che è “perfetto” ma anche la “terra” con tutta la sua precarietà.
       Anche se l’uomo ha provocato la corruzione del creato Dio non abbandona il creato e la creatura che lo abita, accetta di incontrarlo nella precarietà della condizione umana. Dio non si stanca di cercare l’uomo: dalla Croce nasce la Chiesa, la Croce non è il luogo della fine di tutto perché Dio si sarebbe offeso e di conseguenza avrebbe abbandonato l’uomo, la Croce è il luogo in cui Dio resiste ai superbi mantenendosi nel suo amore, non cambia aggredendo l’aggressore ma resta “mite ed umile di cuore”.
       L’uomo non accetta la sapienza di Dio, è come se la considerasse di serie B, scadente rispetto alle “vere questioni” della vita. il problema è che ci si crede risolti, con tutte le risposte, come se avessimo il pieno controllo della vita. Controllo ma di che?
        Nell’atteggiamento dei sapienti individuiamo, piuttosto, una rigida difesa umana, come a dire che il dotto non si ha bisogno di altri. È la pienezza di sé, lo sguardo preconcetto che non permette di vedere con occhio libero e purificato l’altro e la realtà che lo attraversa.
       Dotti e sapienti sono coloro che trattano le cose della vita e le cose di Dio in modo saccente, cioè coloro che usano il sapere per padroneggiare, per farsi grandi innanzi a sé, agli altri e, perfino, innanzi a Dio!
        Gesù loda il Padre perché fa conoscere “queste cose” ai piccoli. Anche nel Magnificat Maria magnifica il Signore perché esalta gli umili, ai piccoli rivela la sua via. Maria riconosce che Dio si rivela non ai grandi e superbi di cuore ma all’umile a chi non può difendersi da sé, a chi si affida a Lui. Così è di lei, giovane donna promessa sposa che proprio perché ancora non è né madre e né sposa non ha garanzie per difendere la sua vita.
        C’è un atteggiamento, una postura, un modo di stare nella vita che è quello dell’umile, Gesù parlerà dei “puri di cuore” coloro che “vedranno Dio”. Dal cuore, da non intendersi come mero luogo del sentimento, muove secondo la mentalità ebraica la volontà e la spinta che dà direzione alla vita. È il luogo dello Spirito, della interiorità, ove si coglie il senso del proprio esistere.  Puro di cuore è la persona che ha un cuore integro cioè non ambivalente o diviso. La stessa accezione è da intendersi nel rapporto con Dio, cioè un cuore che si rivolge a Lui ed ha Dio come unico riferimento e che non si frammenta a seconda dell’idolo di turno.
       Il discepolo è colui che sta dietro cioè si sente in cammino alla sequela del Maestro. Il cuore superbo all’opposto sta di fronte a se stesso. C’è da chiedersi di fronte a chi sta la propria vita. Nel Vangelo di Matteo la purezza è frutto di un “taglio”, cioè del separare ciò che si frappone o disorienta la propria vita.
    Quanti sapienti di questo mondo cercano di manipolare le intelligenze ed i cuori di tanti suggestionando? C’è anche nell’ambito spirituale un fare suggestivo, cioè volto a mostrare il sensazionale per portare le persone a sé. Pensiamo a quanti cercano il miracolismo, come se nella preghiera qualora non si provasse il sensazionale ci sarebbe da considerare quella esperienza “scadente”.
       Tutto ciò è al di fuori della logica dei “piccoli”, l’uomo volitivo in cerca del sensazionale o diviso tra tanti desideri non accetta di essere “piccolo”, cerca di farsi grande perdendo di vista il bisogno di accogliere il dono gratuito di Dio. È per questo che la vita a volte diventa faticosa, è un impegno cercare lo straordinario, allo stesso modo è stancante andare dietro a tanti desideri che dividono il cuore e bloccano la persona in continui conflitti interiori. Eppure Gesù invita a portare il suo giogo, a sposare la sua causa che in realtà è la nostra, affinché ciascuno possa  vivere da uomo e donna liberi, nella verità propria dei figli di Dio. Di quale giogo invece ci carichiamo?
       Il giogo è quello dei buoi che portano l’aratro, in genere non da soli. Così ad esempio i coniugi condividono la loro vita scegliendo di portare insieme lo stesso giogo: la responsabilità familiare. Quando accompagno le coppie ricordo loro che ciascuno non può farsi carico della parte di responsabilità dell’altro, non è sostituibile se non per brevi periodi. Ho visto molti matrimoni entrare in crisi quando uno dei due coniugi tutto ad un tratto si ribella, perché stanco, rifiutandosi di continuare a portare avanti la parte che spetta all’altro. Ora la questione del Vangelo di oggi è un’altra: noi ci stanchiamo perché portiamo il giogo del mondo, e il carico è pesantissimo. Essere piccoli significa affidare la propria vita, con il suo carico, al Padre e portarlo insieme a Lui, riconoscersi in cammino appunto, e mai arrivati.


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