Jun
5
2016
Il Vangelo (Lc 7, 11 - 17) di oggi ci fa assistere ad un evento esemplare, un corteo di morte incrocia un corteo di vita guidato da Gesù e da Lui viene toccato e trasformato in un nuovo corteo di vita che si riorienta verso la città. Anche la lettura dal primo libro dei Re (17, 17ss.) racconta di un episodio in cui il figlio di una vedova di Sarepta di Sidòne ha perso la vita.
Episodi di morte come quello che in questi giorni ha colpito l’esistenza del tredicenne Michele che investito a Palermo, mentre attraversava la strada, non è sopravvissuto. Sorge spontaneo l’interrogativo su come affrontare la vita che appare necessariamente orientata alla morte, o su che cosa significa tornare a vivere.
Elia e Gesù compiono un miracolo analogo, restituiscono la vita al figlio di una vedova ma con Gesù il segno trova il suo compimento: la vita ottenuta in dono è in vista della Resurrezione.
La vedova di fronte ad Elia aveva esclamato: «Che cosa c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?».
In questa domanda cogliamo il grido difensivo di una donna stremata dal dolore, la perdita del figlio e, al contempo, il suo sentirsi in colpa per ciò. È vedova e pertanto ha già perso il marito, la sua vita custodisce molte ferite e lei le riconduce alla “sua colpa”.
Notiamo quanto emerga la prospettiva di un rapporto di sottomissione alla vita legato alla punizione per gli sbagli commessi. Questa donna ancora non conosce il volto del Dio cristiano, quello di un Padre che non tiene conto della colpa dei figli ma che guarda, sempre, con sguardo misericordioso.
Il passaggio dalla morte alla vita è possibile solo quando si scopre che Dio è Padre, altrimenti si resta schiacciati da quella paura propria del peccato delle origini quando Adamo ed Eva si nascosero al sentire il passaggio di Dio.
È il passaggio dalla religione, quella retributiva, alla fede, dalla sottomissione dello schiavo alla relazione filiale.
Ora troviamo Gesù entrare nella Città e, quindi, andare incontro all’umanità votata alla morte, quella che sperimenta solo pianto ed impotenza di fronte alla perdita.
È l’affetto più caro ad essere trafitto, quello di una mamma per il suo unico figlio. In questa scena cogliamo in filigrana l’amore del Padre per il Figlio, ma anche quello di Maria per il figlio Gesù. Proprio ieri abbiamo celebrato la festa del Cuore Immacolato di Maria, è lì che il cuore di Dio si mischia in modo speciale con quello della creatura: Maria è accomunata al Padre in questo patire per il Figlio.
Mistero d’amore che ci riporta alla bellezza del dono che Dio fa di sé e, al contempo, dell’intimità che una creatura, Maria, ha condiviso con Lui.
Gesù si avvicina, ha compassione per quella donna e le dice: «Non piangere!». Non si tratta tanto di banalizzare quel dolore, non è certo come la pacca sulle spalle data, a volte, con superficialità di fronte alle questioni altrui. L’affermazione di Gesù è ben diversa, Lui sente profondamente il dolore della donna, le fa spazio dentro di sé e non la lascia nella sua solitudine. Lui condivide e sente la sua sofferenza ma ha una risposta altra.
Alcuni ritengono che all’indifferenza, propria dell’individualismo dei nostri giorni, occorra reagire con una profonda empatia per l’altro e questa viene associata ad un sentire simbiotico, come se l’altra persona avesse bisogno di un corrispettivo che ricalchi precisamente il proprio vissuto. Questo è un fare adolescenziale che potrebbe rinforzare posizioni di stallo in cui ciascuno continua a nutrire il proprio malessere e a cercare interlocutori che “comprendano” tale autocommiserazione.
È l’atteggiamento della persona che si fa vittima del sistema e della storia credendo che nulla potrà mai cambiare.
Gesù, piuttosto, la invita a non piangere perché non è quella la risposta ultima al suo dolore, c’è una consolazione che viene dalla promessa di Dio, dalla relazione intrapresa con Lui.
Ora tocca la bara ed il corteo di morte si ferma. Il toccare di Gesù è entrare a contatto con la sua presenza, accogliere la sua Parola. Proprio quella che rigenera a vita nuova, ed è così che invita il giovane a destarsi dal sonno. È il risveglio della resurrezione, quello di chi non appartiene ai dormienti ma alle sentinelle della vita.
Ogni cristiano è chiamato a destarsi dal sonno per accogliere la vita e in abbondanza. Ciò equivale ad entrare nella propria esistenza con un fare nuovo, capaci di leggere gli accadimenti illuminati dalla luce del Signore e non offuscati dal buio del peccato.
È così che il giovinetto si desta e sedendo sulla bara comincia a parlare. È il suo “dominare” la morte e la parola è il segno del vivente, a ciascuno è dato il potere esprimere Parole di vita.
Gesù restituisce il figlio alla madre, per spezzare la disperazione dell’umanità vedova. È segno del popolo d’Israele rimasto vedovo perché ha perso il rapporto con il Signore. Vi troviamo, inoltre, un’analogia con la consegna che Gesù fa della Chiesa a Maria. A lei è consegnata la nuova creatura da rigenerare, nel suo grembo ora sta tutta l’umanità redenta.
Dio restituisce i figli alle madri ma con Maria opererà uno scambio: viene consegnata la Chiesa tutta al posto del figlio. È proprio sulla Croce che questo misterioso contraccambio viene sancito, quel luogo di apparente morte diventa, per la storia di sempre, luogo di rigenerazione per l’umanità credente. Da lì in poi la Chiesa troverà in Maria lo sguardo che una madre ha per il proprio figlio.