Nov
16
2014
Partiamo dallo sfatare il buonismo con cui sovente si legge questa parabola tradendone il significato profondo. Oggi, XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, meditiamo la Parabola dei talenti (Mt 25, 14ss), in cui troviamo tre servi di cui uno tradisce l’aspettativa del padrone compromettendo la propria esistenza.
È proprio dalle aspettative che abbiamo che dipende la direzione e la messa in gioco della nostra vita. Se ciascuno si aspetta poco, dicendosi che la propria vita è sfortunata o meno di quella di un altro, allora si troverà ad esprimere poco, se invece si aspetta grandi cose allora riuscirà in un progetto unico ed irripetibile. Questa capacità di riuscita non consiste, però, nella idealizzazione di sé tipica del narcisista che si crede onnipotente e i fallimenti non dipenderanno dalla sorte o dal sentirsi “brutti” o “vittime” del sistema. Un simile ragionamento è esclusivamente umano e Dio non vi trova spazio!
La Parabola pone la questione su un confronto ben diverso, è il nostro rapporto con Dio a stare al centro della questione: chi pensa di non valere al cospetto di Dio allora porterà poco frutto perché non riconoscerà la continua manifestazione di Dio nella propria vita, chi invece si apre fidandosi della promessa di Dio, che lo riconosce prezioso ai suoi occhi, si metterà in gioco in modo sorprendente.
Nel Vangelo le quantità e le proporzioni sono significative, si pensi che un talento è pari a 33 kg d’oro. È un dono molto prezioso quindi, e viene dato in consegna pur appartenendo sempre al padrone e non al servo. Sorprende il grande atto di fiducia che muove il padrone verso il servo. Lui parte e, nel mentre, tutto dipenderà dal servo che ha in custodia il talento.
Questa preziosità non indica tanto la quantità o la dote umana, è molto di più, il dono è qualcosa che accogliamo e vive attraverso la nostra esistenza oppure, nel momento in cui pretendiamo di appropriarcene, perde il suo valore, la sua capacità di dare vita. Sorge spontanea la domanda: ciascuno si possiede o è dono per sé e per gli altri?
Percepirsi quale talento da custodire e non oggetto da possedere e difendere, fa della propria vita un dono, un aprirsi all’altro con spirito di servizio e di accoglienza, di interesse per il bene altrui. Questo procura gioia, fascino di vita, entusiasmo per ciò che circonda, una vita contrassegnata dall’amore.
I talenti vengono distribuiti a ciascuno secondo le proprie “capacità”, c’è una pienezza che viene data ad ognuno secondo le sue attitudini e qualità di vita, ma il talento da lavorare è altra cosa: è il dono della Parola e della Sua stessa vita, l’amore che riceviamo da Dio attraverso i sacramenti e la Sua presenza nel mondo è il grande talento da coltivare. La Chiesa vive al suo interno una semina continua ed ogni cristiano è inviato a spargere il buon seme di Cristo nel mondo.
I talenti investiti, trafficati, si moltiplicano e il frutto di ciò è il prendere parte alla gioia del Signore. La meta supera il singolo talento è la pienezza della Comunione con il Signore, il dimorare per sempre alla sua presenza. Come trafficare i talenti? Dandoli ai poveri, condividendo con il prossimo, vivendo in comunione d’amore. In realtà Talento è ciò che dono e non ciò che ho, al servo che viene riconosciuto “buono e fedele”, al di là dei talenti ricevuti, viene detto che tale apertura nel “poco” procurerà ricompensa nel “molto”. È l’atteggiamento di fondo, la spinta di vita ad essere premiata e non la quantità delle opere.
Il “servo buono e fedele” è quello grato che si mette in gioco, la fiducia ricevuta diventa stimolo per impegnarsi, sa di essere il custode dei talenti che gli sono affidati e il sentirsene onorato diventa motivo di condivisione, è trasformato da ciò che porta: l’Amore di Dio. Il “servo malvagio e pigro”, invece, proietta le sue idee sul padrone ed è succube delle sue paure, è prigioniero dei suoi stessi pensieri, pensieri tristi e colmi di pregiudizio che distorcono la verità delle cose. Anche lui, infatti, aveva ricevuto la fiducia anticipata del padrone ma ha dubitato pensando che fosse una trama, un inganno, nei suoi confronti. Penso a tanta gente che si guasta il sapore della vita perché sta continuamente ad elucubrare quello che non va o, potrebbe non andare, in sé, nel prossimo e nella realtà che la circonda.
Il mistero della vita è troppo grande per l’uomo e quando questi cerca di risolverlo da solo, allora, finisce con il rimanere schiacciato dal compito, intimorito dal suo limite: non riuscire a rispondere da se stesso al bisogno di infinito.